SEMBRA AMLETO
Una sedia. Sei tombe. Un naso rosso. Un uomo seduto in attesa. È così che si apre la scena. La tragedia si è svolta. Tutto è già avvenuto.
Il tempo è motore dell’azione scenica: sfalsato, distorto. Amleto conta i minuti alla sua morte, preparando, infine, il suo loculo. La morte è lì davanti che guarda. La sua tomba aspetta che si riempia del personaggio. L’attore in scena detta i tempi di un dramma conosciuto e tenta in maniera svogliata di ripercorrerne i passaggi cruciali.
E’ farsa? E’ Grottesco? E’ Clownesco? Tutto è rappresentazione.
“Hai trenta minuti e poi morirai” dice l’amico Laerte. Non c’è tempo. Un’imperfetta ricostruzione del dramma Shakespeariano è necessaria perché l’attore arrivi a concludere il gioco, a togliersi il naso, a morire. Il personaggio muore, non l’uomo, che ha ancora qualcosa da dire alla madre defunta. È a lei, sulla sua tomba, che vomiterà addosso parole segrete, logorate dal buio, insudiciate dai troppi silenzi. Confessa.
L’Amleto di Francesco Zaccaro corre su un filo immaginario, sospeso tra realtà e finzione, teatro e rappresentazione, vita e morte, attore e personaggio, cercando come un abile Petit di improvvisare delle evoluzioni: Il filo non è ciò che si immagina. Non è l’universo della leggerezza, dello spazio, del sorriso. È un mestiere. Sobrio, rude, scoraggiante. [Philippe Petit]
di e con Francesco Zaccaro regia di Ivano Picciallo
disegno luci Camilla Piccioni scene Alessandra Solimene
con il sostegno di IAC